Il diritto alla salute al centro dell’agenda politica

L’economia di mercato in regime di concorrenza perfetta ha le sue regole e le imprese sul lungo periodo continuano a produrre se tendono verso l’azzeramento degli extra profitti, se la domanda incontra l’offerta nel punto minimo del costo medio del prodotto e se è il consumatore che decide cosa il mercato deve produrre. Dal punto di vista accademico non ho nulla da eccepire, l’analisi degli economisti liberali è da sempre convincente.

Ma in sanità, ambito di cui ci occupiamo, noi non viviamo in un mercato dove prevale il regime di concorrenza perfetta e, pur prevalesse, noi non dovremmo dimenticare che per ammissione degli stessi economisti, in regime di concorrenza perfetta le imprese non si occupano di equità. Di equità si occupa lo Stato che può intervenire, in parte o per tutto, con diverse azioni, addirittura con il monopolio o con la concorrenza monopolistica.

Ogni discussione sul futuro dei sistemi sanitari dovrebbe iniziare da questo presupposto e dalla singolarità del bene in questione che è la salute la cui tutela è un diritto delle persone, un bene che non ha un prezzo naturale come qualsiasi altro prodotto oggetto di scambi, possibilmente efficienti, tra chi produce e chi acquista.

Dal presupposto condiviso dovremmo approfondire le conseguenti scelte organizzative con minori difficoltà e divisioni rispetto a ciò che avviene nella realtà. La mia analisi mi porta alla conclusione che le discussioni sulla sanità non analizzano solo il bene – salute -, perlomeno, lo analizzano al pari di tanti altri beni il cui elenco rimando ad altri approfondimenti. Resto sul vago e anticipo solo che la produzione di farmaci, tecnologie sanitarie, stabilimenti sanitari privati, professioni, in molti casi non sono altro che mercati condizionati ma non a sufficienza dalla ricerca del bene ad essi superiore, quello per il quale essi stessi esistono, cioè la salute. Al contrario, gli interessi che ruotano attorno ai mercati farmaceutici, delle tecnologie sanitarie, della sanità privata, delle professioni, sono molto più forti e organizzati dell’interesse che tutti i cittadini hanno per la loro salute. Il paradosso è palese: sono tanto più forti e organizzati che, invece di essere almeno in parte condizionati, riescono a influenzare l’opinione pubblica a loro vantaggio.

Qualcuno mi dirà che prediligo il monopolio pubblico nell’erogazione dei servizi sanitari e che tendo verso l’estromissione dei privati. Non sono così radicale. Credo, questo è vero, che dovremmo inoculare nel corpo stanco della sanità del nostro Paese dosi massicce di interesse pubblico che, tradotto, significa mettere al centro delle scelte il diritto di rimanere in salute. Per esempio, siccome quando ci sono tante cose da fare si rischia di non sapere da che parte iniziare, i consigli che mi sentirei di dare sono tre: il primo è testare nuovi meccanismi di controllo della spesa con una sensibile riduzione delle centrali di acquisto di beni e servizi. Il secondo è maturare la consapevolezza che ancora oggi lo Stato non incide prepotentemente sulla ricerca sanitaria e clinica, non investe adeguate risorse e non indica gli obiettivi di ricerca. Il terzo è nel rapporto con il privato. Qui sarò sbrigativo e rimando ad altri approfondimenti. Per tutti gli interessi legittimi di cui è portatore il privato (voglio essere chiaro, non solo gli ospedali privati) io credo sia arrivato il tempo per la politica di indicare una strada nuova. Una strada con segnali visibili e non interpretabili, quella che porta verso uno scenario in cui il pubblico decide cosa fa il privato, il privato non fa quello che deve fare il pubblico e il privato opera in regime di fortissima concorrenza con altri privati. Oggi non è così e, se così fosse, ne gioverebbe il diritto alla salute. 

Domenico Ravetti
vice Presidente della VII Commissione Autonomia,
Federalismo e Enti Locali della Regione Piemonte

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