Un paese superficiale

Mi ha colpito la definizione che Gino Strada ha dato dell’Italia nella trasmissione “In mezz’ora” di Lucia Annunziata: un paese superficiale, il nostro.
Non mi sento di dargli torto, non tutti gli Italiani sono superficiali, ma probabilmente una buona parte sì.
La superficialità è un atteggiamento che si ferma alla superficie delle cose, che si attacca ad aspetti del vivere molto futili, volti a un edonismo che non guarda al futuro e tanto meno al prossimo.
Non si potrebbe spiegare altrimenti questo lanciarsi immediatamente nel “tunnel del divertimento”, come cantava Caparezza, non appena vengono allentate le briglie.
Non è sempre stato così, molto di quello che ci circonda è stato costruito da generazioni che hanno vissuto nel sacrificio e in ristrettezze e restrizioni che oggi facciamo anche solo fatica a immaginare.
Quando siamo cambiati? Quando l’Italia è cambiata?
Come in tutti i processi lo sviluppo è stato lento e graduale, ma credo che l’inizio di questa involuzione parta grossomodo dagli anni ottanta.
Sarebbe facile dare tutta la colpa al Berlusconismo e a quel ventennio che, attraverso le tv commerciali, ha pesantemente influenzato le menti dei nostri concittadini. Certamente una responsabilità di questo inizio di cambiamento la possiamo attribuire a quegli anni e a chi ci ha governato, ma nel frattempo ci siamo trovati al centro di una trasformazione globale a livello planetario, una trasformazione economica, prima di tutto, ma in particolare modo comunicativa.
Abbiamo seguito l’andazzo, quello dell’inseguire il successo, inteso come benessere economico, bella vita e possesso di status symbol, quando pochi, troppo pochi possono, in realtà, avere tutto questo.
Ci si accontenta dei surrogati, week end, happy hour, shopping, tutto a portata di borsellino logicamente, ma con quella sensazione di “sciallo”, come direbbero i giovani d’oggi. 
Il fenomeno è ormai diffuso in tutta la società ed è un fenomeno infra generazionale.
Recentemente le riaperture hanno messo in luce maxi assembramenti e non si trattava solo di ragazzini che mordono la briglia, ma di persone di ogni età tutti riuniti dagli stessi bisogni: esibirsi e consumare.
Ricordo di aver letto negli anni settanta il libro dello psicologo Erich Fromm “Avere o essere?”, un testo indirizzato contro la brama del possesso, contro l’avidità del potere, lo spreco, la violenza, coltivando la prospettiva di un diverso atteggiamento verso la natura e la società, basato sull’altruismo e sull’amore. 
A distanza di anni è facile constatare che “l’avere” si è imposto “sull’essere”, anzi ormai il senso dell’esistenza di molti è proprio solo quello dell’avere, lo stare bene personalmente, il divertimento vuoto hic et nunc, anche l’amore spesso è solo possesso.
Ed ecco che un evento inaspettato come una pandemia finisce per mettere in luce la nostra incapacità di sacrificarci, di dare valore al bene della comunità, rivelando un cinismo allarmante che porta a scordarsi dei morti e delle tragedie che ci circondano.
Più sopra ho accennato al mutamento economico degli ultimi decenni con la bandiera ammainata del mondo del lavoro e delle sue rivendicazioni, le lotte operaie sfumate con il ritorno a uno sfruttamento non più feroce come nell’ottocento, ma altrettanto destabilizzante per via del precariato e della fragilità retributiva.
Questa bandiera ammainata ha portato come conseguenza la scomparsa dei luoghi di discussione, di dibattito, luoghi anche conflittuali ma di crescita.
Al posto di questi ultimi si è imposta “la piazza virtuale”, una piazza “vigliacchetta”, dove le persone non le guardi in faccia, tanto meno negli occhi.
Il pericolo lo intuì precocemente Umberto Eco con quella famosa boutade “del web che avrebbe dato la parola a orde di imbecilli”.
Come tutte le boutade ha espresso un concetto estremizzandolo, questo è chiaro, ma nell’estremizzazione risiede un fondo di verità. 
La comunicazione virtuale può sortire, infatti, esiti positivi, ma necessita di strumenti cognitivi e interpretativi che molti non posseggono risultando alla fine manipolabili e manipolati.
Il dado è tratto, avrebbe detto Giulio Cesare, e nessuna marcia indietro appare più possibile o praticabile. Così siamo diventati e così siamo, per ora, un paese di superficiali, di presuntuosi e arroganti, un paese del “chiagni e, se puoi, tetta”, un paese di furbetti del quartierino, un paese forse anche profondamente egoista.
Un paese così egoista che circola la tesi:”Aspetterò a fare il vaccino, guardando un po’ gli effetti che fa agli altri”. E pare un ragionamento del tutto normale.
Vi sembra un discorso troppo tranchant? Troppo perentorio?
Forse avete ragione, ma tra poco è Natale e saranno tutti più buoni, anche gli Italiani.

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Maria Angela Damilano

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