Il 30 giugno 1960 è una data che non può essere semplicemente archiviata nei libri di storia, perché Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza, in quel fatico giorno scese in piazza compatta per impedire che il congresso del Movimento Sociale Italiano (MSI) erede diretto del fascismo sconfitto, scelse di tenere proprio a Genova nel cuore della città partigiana.
Quel giorno, il popolo antifascista – operai, studenti, partigiani, donne e giovani – alzò la testa e disse: “No, qui i fascisti non passeranno!”. E non passarono davvero.
Non fu una protesta qualunque. Fu una sollevazione civile, un moto collettivo di dignità. La città si fermò. I portuali incrociarono le braccia, gli studenti occuparono le strade, i militanti della Resistenza tornarono in prima linea. Le barricate sorsero spontanee. Fu uno spartiacque: da un lato la memoria viva dell’antifascismo, dall’altro il tentativo della classe dirigente di normalizzare il ritorno dei fascisti nelle trame politiche, con la benedizione del governo di Fernando Tambroni, esponente della Democrazia Cristiana.
Tambroni salì al governo il 25 marzo 1960, con un fatto gravissimo: ottenne la fiducia grazie ai voti del MSI, il partito fondato da reduci della Repubblica di Salò. Il 4 aprile ottenne 300 voti alla Camera, tra cui quelli dei missini. Il 29 aprile la fiducia al Senato, ancora con l’appoggio determinante del MSI. Quel governo durò appena quattro mesi e 1 giorno, ma fu un attacco frontale alla democrazia nata dalla Resistenza.
Molti ministri democristiani si dimisero per protesta, tra cui Giulio Pastore, Rinaldo Bo e Giuseppe Bettiol. Ma altri, come Mario Scelba e Antonio Segni, restarono, consentendo che il ministro dell’interno, Mario Scelba, permettesse al MSI di convocare il congresso proprio a Genova. Una sfida. Una provocazione.
Il congresso doveva essere presieduto da Carlo Emanuele Basile, prefetto fascista della città durante l’occupazione nazifascista, noto per le deportazioni e la repressione. Alla kermesse era atteso anche Junio Valerio Borghese, il “principe nero”, comandante della Xª MAS, mai pentito, mai rinnegato.
Il MSI era guidato da Arturo Michelini, che rifiutò ogni mediazione e impose Genova come sede. Tutto questo accadeva con il silenzio complice di molti parlamentari, e con l’appoggio indiretto del Quirinale, sotto la presidenza di Giovanni Gronchi, che diede l’incarico a Tambroni nonostante sapesse che avrebbe governato con i voti dei neofascisti.
Ma Genova non si piegò.
Il 28, Sandro Pertini, il futuro presidente partigiano, parla da “u brichettu” – la miccia – in Piazza della Vittoria: “Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: eccoli qui, sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e alla offesa”.
Due giorni dopo, il 30 giugno 1960, Genova sciopera, 30mila persone sfilano in corteo. Le fabbriche si fermano, i portuali bloccano il porto. Gli studenti scendono in strada. Le barricate si alzano. La polizia carica duramente. Ma il popolo resiste. Alla testa dei cortei ci sono uomini e donne della Resistenza, sindacalisti come Bruno Pigna, militanti della CGIL come Igor Magni, dirigenti dell’ANPI come Massimo Bisca. E con loro la memoria viva di Umberto Terracini, il senatore comunista che aveva presieduto l’Assemblea Costituente.
Il congresso del MSI non si terrà mai. Genova ha vinto. Ma la rivolta si allarga: Reggio Emilia, Roma, Palermo, Licata, Catania, Cagliari. Lo Stato risponde con le armi. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, la polizia spara: cinque operai vengono uccisi. Ancora una volta, il sangue operaio bagna le strade della democrazia.
Eppure oggi, a distanza di 65 anni, dobbiamo dire con amarezza che quelle barricate sono ancora attuali. Perché mentre ricordiamo i fatti di Genova 1960, oggi nel 2025 abbiamo al governo proprio quegli eredi del fascismo che allora furono respinti. Abbiamo ministri e presidenti del Consiglio che non hanno mai rotto col fascismo, che lo riabilitano nei simboli, nei toni, nei contenuti. Abbiamo un governo che reprime il dissenso, che criminalizza chi sciopera, che militarizza le scuole e i quartieri popolari, che alza muri contro i migranti e taglia i fondi a scuola, sanità, cultura, per finanziare gli armamenti.
È questo il futuro che sognavamo quando i nostri padri e le nostre madri scesero in piazza nel ’60?
La memoria non è una cerimonia. Non è una bandiera da esibire una volta all’anno. La memoria è lotta. È scelta quotidiana. È responsabilità. E allora noi abbiamo il dovere di gridare l’assurdo: è assurdo, sì, che i neofascisti stiano governando questo Paese. È assurdo che chi inneggia a Mussolini possa farsi chiamare “onorevole”. È assurdo che il revisionismo storico abbia trovato spazio nelle scuole, nei telegiornali, nei discorsi ufficiali. È assurdo che la Costituzione nata dalla Resistenza venga sistematicamente calpestata proprio da chi dovrebbe applicarla. Ed è ancora più assurdo che nel 2025 ci siamo città o paesi che abbiamo ancora come cittadino onorario Benito Mussolini!!!
Ma non dobbiamo meravigliarci se questo è successo. È successo perché c’è stata una lunga complicità, un lento scivolamento, una colpevole sottovalutazione. Il centrosinistra ha aperto la strada a questo presente, accettando alleanze ambigue, rincorrendo la destra sui “valori della sicurezza”, voltando le spalle ai lavoratori, criminalizzando i movimenti, dimenticando la lezione dell’antifascismo militante.
Il 30 giugno 1960 ci insegna che i fascisti si fermano solo se il popolo li ferma. Non bastano le denunce, non bastano i comunicati. Serve la piazza. Serve la lotta. Serve l’organizzazione popolare. Quei giorni di Genova accaddero perché c’era un tessuto sociale vivo, perché i portuali erano uniti, perché la memoria della Resistenza era ancora calda e parlava una lingua chiara: mai più fascismo.
E allora oggi, noi dobbiamo raccogliere quella fiaccola. Dobbiamo tornare a parlare nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle strade. Dobbiamo dire che antifascismo vuol dire lottare per i diritti, per la giustizia sociale, per la pace. Che antifascismo è difendere la Costituzione, ma anche andare oltre, costruire un’alternativa radicale a questo sistema che produce ingiustizia e guerra. Perché oggi, i fascisti non indossano sempre le camicie nere. A volte portano la giacca e la cravatta, parlano bene, usano parole come “merito”, “sicurezza”, “ordine”. Ma sotto sotto, negano la libertà, negano la solidarietà, negano l’uguaglianza.
Genova 1960 è una lezione per oggi. È la prova che quando il popolo si unisce, può fermare anche ciò che sembra inevitabile. E allora, se oggi i fascisti sono al governo, vuol dire che abbiamo il dovere di svegliarci, di organizzarci, di resistere. Non per nostalgia, ma per giustizia. Non per retorica, ma per necessità.
Chiudo con le parole di Sandro Pertini, l’unico presidente che mi è rimasto nel cuore, che proprio a Genova, in quei giorni infuocati, parlò con coraggio al popolo:
“Se il fascismo risorge, risorgerà anche l’antifascismo. E sarà implacabile.”
Tocca a noi. Tocca a tutti e tutte noi essere all’altezza di quella promessa. Viva Genova antifascista. Viva il 30 giugno. Viva la Resistenza!
Robbiano Laura PRC
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