Ancora una volta, l’Italia ha scelto di non scegliere. Né sul fronte dei diritti, né su quello del lavoro. Né per i giovani cresciuti in questo paese ma ancora stranieri per legge, né per le lavoratrici e per i lavoratori schiacciati dalla precarietà, dallo sfruttamento, dalla violenza quotidiana dei licenziamenti facili.
Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum sulla cittadinanza e sul lavoro non è una casualità. È il segno profondo di una crisi democratica e culturale. È la cartolina sbiadita di un paese che invecchia, si chiude, si rassegna.
I referendum sono uno degli strumenti fondamentali della partecipazione democratica. Ma in Italia, da anni, vengono svuotati. L’indifferenza, l’ostruzionismo politico, la scarsa informazione e la disillusione popolare si sommano in un cocktail velenoso che impedisce ogni cambiamento dal basso.
Il quesito sulla cittadinanza chiedeva di riconoscere il diritto a essere italiano a chi lavora regolarmente da 5 anni in Italia, pagando regolarmente le tasse e di conseguenza le quote delle future pensioni, di chi nasce o cresce qui, studia nelle nostre scuole, parla la nostra lingua, ama questo paese più di quanto questo paese lo ami.
I quesiti sul lavoro volevano restituire tutele minime, rimettere in discussione i licenziamenti senza giusta causa, fermare l’uso distorto e punitivo dei contratti a termine e delle piattaforme digitali.
Due ambiti diversi, ma uniti da un filo rosso: il futuro. E quel futuro, ancora una volta, è stato ignorato, seppellito sotto il peso dell’astensionismo, del calcolo elettorale, della paura e della indifferenza.
Si deve denunciare il ruolo delle forze politiche, soprattutto di quelle al governo, che hanno fatto di tutto per sabotare la partecipazione. Nessuna informazione istituzionale, nessuna campagna pubblica per spiegare il contenuto dei quesiti. Solo silenzio, distorsione mediatica, e una coltre di disinteresse costruita ad arte.
Il centrodestra ha scelto la via della paralisi: meglio non votare che perdere. Il centrosinistra istituzionale, tranne poche eccezioni, si è nascosto dietro l’ennesimo equilibrismo. E chi ha sostenuto i referendum lo ha fatto spesso in situazioni estreme con poche risorse, tempi stringati e senza la mobilitazione necessaria.
Ma la responsabilità non è solo dei partiti. È anche di un sistema mediatico piegato sull’attualità tossica, incapace di dare spazio alle questioni strutturali. È anche di una cultura politica impoverita, che ha smesso di parlare di diritti, di lavoro, di cittadinanza come elementi centrali della vita democratica.
La fotografia è impietosa, e’ una foto di un’Italia che non vota per dare diritti a chi è cresciuto qui. Che non vota per difendere chi lavora. Che lascia tutto com’è.
Un’Italia vecchia, nel corpo e nella testa. Che si aggrappa ai privilegi acquisiti, ai confini identitari, alle leggi arcaiche. Che considera ancora “stranieri” ragazzi e ragazze italiani a tutti gli effetti. Che accetta una precarietà diventata ormai sistema, mentre milioni di giovani se ne vanno, stanchi di essere invisibili, ricattati e senza un futuro stabile.
Non è solo una questione demografica: è una questione culturale, sociale, politica. Siamo un paese che ha smesso di investire nel futuro. Che non ascolta chi ha vent’anni, ma si lascia guidare da chi ha fatto il suo tempo e ha paura del nuovo.
L’assenza di quorum non cancella le ragioni di quei referendum. Al contrario, le rende ancora più urgenti. Perché se la democrazia rappresentativa è in crisi, e quella diretta viene sabotata, allora è il sistema stesso che non regge più.
Abbiamo bisogno di ricostruire una cultura della partecipazione, una passione civile, una rete di solidarietà attiva. Di riportare le persone nei luoghi della decisione collettiva, a partire dai territori, dai luoghi di lavoro, dalle scuole.
Serve una sinistra coraggiosa, che non insegua il centro ma che parli chiaro, la cittadinanza la deve avere chi lavora, paga le tasse, cresce i suoi figli in Italia, avendo un lavoro stabile e dignitoso,dopo 5 anni e non dopo 10 anni.
Rottura netta con le politiche neoliberiste che hanno distrutto il welfare e reso la precarietà come una normalità.
Non possiamo rassegnarci all’idea che nulla cambi. Ogni referendum fallito è anche una lezione. E chi oggi gioisce per il mancato quorum sta solo prendendo tempo. Perché fuori dai palazzi, fuori dai talk show, esiste un’Italia diversa: fatta di giovani che lottano per essere riconosciuti, di lavoratrici e lavoratori che non accettano più lo sfruttamento, di cittadine e cittadini che vogliono contare davvero.
Ripartiamo da lì. Dai diritti negati, dalla voglia di futuro, dalla rabbia che si fa proposta. Perché se non cambiamo rotta, questo paese , vecchio, stanco, chiuso, non farà che affondare. E noi non siamo disposti ad affondare in silenzio.
Robbiano Laura PRC
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2 commenti su “Non possiamo rassegnarci all’idea che nulla cambi”
Comments are closed.
Analisi puntuale e approfondita
Tutto giusto ma…
Il JobsAct lo ha approvato il PD di Matteo Renzi, sempre il PD ha appoggiato pedissequamente ogni follia proveniente da Bruxelles, la legge sulla cittadinanza attuale mi pare equa e pare evidente che lo scopo di concederla con tempistiche ridotte è un palese di tentativo di fidelizzare i “miracolati” buona parte dei quali non ci pensano proprio di integrarsi nel tessuto culturale ed economico Italiano.
Venendo all’astensionismo, esso è il risultato di anni di Demagogia, di menzogne elettorali e vale per tutti gli schieramenti e tengo a precisarlo, di imposizioni assurde. Il dato oggettivamente inconfutabile è che gli Italiani disprezzano l’attuale classe politica o meglio dire politicante, il resto mi duole dirlo… sono solo astrusità ideologiche che ormai non appassionano ed in vero hanno stufato i cittadini.
Alle scorse politiche l’astensione è stata enorme ed è stata riconfermata dal referendum. Il dato è chiaro la Politica è delegittimata.