Il post-partum, un percorso dolce e amaro

Durante questa pandemia tante donne in gravidanza si sono sentite un po’ lasciate sole. Nel lock down, in special modo, per tante non è stato possibile avere il proprio compagno accanto durante le visite, ma anche durante il travaglio e, nei casi peggiori, il parto.
Ma non solo, si è fermata spesso tutta quella parte di vissuto della donna che viene chiamata accompagnamento alla nascita e che ha lo scopo di rendere le donne più consapevoli del loro vissuto: corsi pre parto, incontri di condivisione con altre mamme, confronto con figure specialistiche.
Ci sono in realtà alcuni aspetti della gravidanza, ma soprattutto del post parto, che già prima della pandemia venivano spesso poco considerati.
Se esistono mamme che autonomamente, rivolgendosi a professionisti privati, si informano e cercano di superare quelle piccole difficoltà che vengono a volte a crearsi nei primi giorni di vita dei loro bambini, ci sono altre che non vogliono o non possono informarsi e che spesso, travolte dagli eventi, non hanno un buon sostegno, nemmeno dalle strutture che dovrebbero essere preposte a questo.
Se i corsi preparto organizzati a livello di Sistema Sanitario Nazionale solitamente funzionano, è soprattutto nel post parto, quindi, che manca il supporto, mentre questo è un momento molto delicato, dove la donna si trova ad affrontare una situazione del tutto nuova, spesso con alcune difficoltà. Personalmente ho partorito il secondo figlio nell’ottobre 2019 e ancora oggi “sto aspettando” la chiamata dalla Asl per il corso post parto che non è mai partito. Certo c’è stata la pandemia, ma almeno nel mio caso, non possiamo dire che la colpa sia solo di quella, perchè mio figlio a marzo era già ben fuori dal periodo del post parto.
Devo dire che negli anni si stanno facendo dei progressi, ma non abbastanza.
Parliamo poi di un tema a me particolarmente caro, ossia l’allattamento. In ospedale ci sono ostetriche e personale medico pronti ad aiutare la neo mamma nelle piccole e grandi difficoltà iniziali, ma spesso, anche per ovvie questioni di tempo e di organico, sono comunque lasciate un po’ sole. Alla dimissione viene fissata una visita al consultorio per confrontarsi con le ostetriche su come proceda, visita non obbligatoria e che quindi molte mamme non effettuano. Sì, perchè a volte è anche difficile ammettere che si ha qualche difficoltà oppure perché effettivamente in quel momento di difficoltà non se ne hanno e quindi non si sente la necessità di un confronto, che a mio parere è sempre utile.
Il consultorio, in realtà, è sempre aperto e una donna vi si può recare anche in un secondo momento, ma non c’è buona informazione e poche lo sanno. 

In Italia perciò, se non privatamente con ostetriche, consulenti Ibclc (International Board Certified Lactation Consultant, in italiano Consulente Professionale in Allattamento Materno) o altre figure analoghe, manca un sostegno all’allattamento. 

E cosa succede? Succede che alla mamma che ha difficoltà ad allattare il proprio figlio, che ha problemi come ragadi o ingorghi, che se individuati e curati per tempo possono essere superati, che è stanca e vorrebbe godersi il proprio figlio e magari dormire, viene consigliata come soluzione di sostituire in parte o del tutto il proprio latte con quello artificiale. Non ce la fai? Lascia.

Sia chiaro, il mio intento non è colpevolizzare nessuno, lungi da me essere contro chi non allatta o lo fa per poco tempo.
Le mie riflessioni, ripeto, sono verso il sistema, verso medici e operatori che spesso non supportano la neomamma nel suo percorso di allattamento, verso un sistema che non prevede un vero e proprio corso post parto che parta dall’ospedale e duri almeno tutto il primo anno di vita del bambino.
Sarebbe bello, per esempio, prevedere in ospedale un’ostetrica di riferimento per ogni neo mamma, un supporto sicuro, che faccia sentire la donna capita, compresa, forte e consapevole.
Ricordiamo che, si sia d’accordo oppure no con l’allattamento o con l’allattamento prolungato, l’OMS dà indicazioni chiare in proposito. Riporto quanto si trova sul sito del Ministero della Salute:

L’OMS raccomanda l’allattamento in maniera esclusiva fino al compimento del sesto mese di vita. È importante, inoltre, che il latte materno rimanga la scelta prioritaria anche dopo l’acquisto di alimenti complementari, fino ai due anni di vita ed oltre, e comunque finché mamma e bambino lo desiderino”.

Purtroppo invece la mamma che allatta fino ai due anni e oltre è vista spesso di cattivo occhio e persino i medici a volte la guardano storto o le si fanno domande come “allatti ancora?”, “ma non è acqua?”. Certo se ci paragoniamo al boom del latte in formula degli anni 80, oggi sono rose e fiori….

Molti pediatri sembrano non essere aggiornati e tanti, spesso troppi, fanno introdurre cibi solidi quando il bambino non è pronto, a 5 mesi, se non alcuni già a 3 e mezzo o 4. 

Mi piacerebbe capirne il vero motivo.

La mia ultima riflessione, a cui però, non essendo nutrizionista né avendo competenze in alimentazione, non posso dare risposta, riguarda lo svezzamento, con il quale spesso si consiglia di seguire un tipo di alimentazione che forse, ripeto forse, non è del tutto corretta dal punto di vista nutrizionale, o almeno non lo è alla luce di quanto ad oggi è dai più considerata “sana alimentazione”.
Prendiamo ad esempio la carne. 

È sicuramente vero che, per crescere, i bambini hanno bisogno di carne, ma come mai, nella maggior parte degli schemi di svezzamento tradizionali che i pediatri danno alle famiglie, viene indicato di dare carne 1 se non 2 volte al giorno, ossia pranzo e cena?

Nel 2010 l’Unesco ha riconosciuto la Dieta Mediterranea come “patrimonio immateriale dell’umanità”. La piramide alimentare prevede, per esempio, che il pollo venga consumato 1-2 porzioni a settimana e la carne rossa meno di 2 porzioni. 

E allora perché ai bambini 1 o 2 volte al giorno? Mi sembra e, ripeto, mi sembra una esagerazione, quando a noi adulti invece viene spesso ricordato che troppa carne fa male. A noi adulti, e ai bambini?

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Benedetta De Paolis

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