La metamorfosi di un Sindaco

Una mattina, al risveglio da sogni inquieti, mi ritrovai trasformata in un enorme Sindaco di una cittadina del basso Piemonte. Sdraiata nel letto sulla schiena dolorante, bastava che alzassi un po’ la testa per vedermi il ventre prominente, la pelle bianca come latte scremato, spartito da rughe; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, sembrava non sapere dove stare, se coprirmi o scoprirmi, incerta anche lei sul da farsi. “Cosa mi è successo?”, pensai.

Non era un sogno. Sopra al tavolo, accanto a me, era appesa una vecchia foto che rappresentava una signora con un kokoshnik, un tipico copricapo da donna russo, che sedeva impettita e alzava verso chi guardava un enorme manicotto che le nascondeva tutto l’avambraccio. In fondo alla foto la scritta “Novi Ligure”, la mia città. Il mio sguardo si volse verso la finestra e il tempo tetro – una fitta nebbia nascondeva il panorama – finì per rendermi del tutto malinconica, oltre che già particolarmente turbata dai nuovi abiti che indossavo. “Se dormissi ancora un poco e dimenticassi tutte queste pazzie?”* Più facile a dirsi che a farsi. In questa situazione a dir poco assurda e incomprensibile cercai di sollevare quel corpo non mio, decisamente diverso dal mio, per sesso ed età ma anche per posizione sociale: ero il Sindaco di Novi Ligure.

Chi non sarebbe conquistato dall’idea di rivestire un simile ruolo, scelto volontariamente dai propri cittadini che ti eleggono a loro massimo rappresentante, donandoti piena fiducia? Si sa, il potere ammalia, intriga, ma altresì perturba e assuefà, il prezzo da pagare può essere alto, esige di genuflettersi alle sue richieste rischiando di indossare i panni della vittima cieca, ma non certo inconsapevole. Ma poi, potere di cosa? Me lo domando mentre continuo ad agitarmi in quello che mi pare stia diventando un sudario politico, e scopro che quei panni allettanti e fascinosi da Sindaco mi risultano, al tocco, sgualciti e rattoppati. Il Mungitore, i Dem, SportinNovi, l’inceneritore, pallottole di cannone e soldi congelati, i Blues Brothers e la Famiglia Addams, il Rio Gazzo che tracima e il porfido che salta, la singolar tenzone tra Gestione Acqua e Amag, una Tari che compare e scompare, il Merolone e il Moscone!

Improvvisa la coscienza di non potermi alzare, mi ritrovai arpionata attraverso fili invisibili alla testata del letto; come presa nel mezzo di una ragnatela mi era impossibile muovermi di mia sponte. Mi girai, la vecchia signora della fotografia si animò e, guardandomi con occhio accusatore, fece scivolare fuori dal manicotto una mano rattrappita e tremante che mi puntava il dito contro, a manifestarmi la sua rabbia, per poi ritirarla sconfitta e amareggiata, abbassando lo sguardo di fronte alla mia impotenza. Ma è la mia città! Cosa le è successo? Cosa potrei fare? Mi sentii silenziosamente urlare, ma le parole morivano in gola, soffocate da una disperazione, quella della presa di consapevolezza, mentre fili robusti mi costringevano a letto, animati dalla volontà di non farmi muovere. Vagai con lo sguardo per la stanza, cercando una soluzione al mio silenzio e alla mia inerzia, provai a tirare quei fili e scoprii che in realtà non erano legati al letto ma tenuti saldamente in mano a una figura che restava nell’ombra, mollemente adagiata su una poltrona a sorseggiare una sambuca, ne vedevo solo spuntare un foulard verde. Ma la cosa singolare era che la figura aveva anch’essa dei fili che la trattenevano, uscivano dalla stanza, percorrevano una ventina di chilometri in direzione nord-ovest e dove arrivavano non mi era dato sapere. Mi girai nuovamente verso la finestra e, nel vedere ancora quella nebbia così insistente, capii dove quei fili giungevano. Ma non potei fare nulla in questo che per me era un incubo tanto angosciante quanto reale, mentre percepivo come sempre più scomodi quei panni che ero costretta a rivestire, terrorizzata di dover anche io, come Gregor Samsa (o come il Sindaco di Novi Ligure?), lasciarmi morire di inedia, umiliato e abbandonato da tutti. Invece, mi risvegliai, ancor più dolorante ma per la sofferenza che quegli attimi da incubo mi avevano provocato e pensai alla scomodità di occupare quella sedia di potere, senza poi tale potere possederlo davvero, così tristemente cosciente della mala gestione della mia un tempo ridente cittadina, ma senza sapere come rimediare, o forse senza avere l’ardire di agire, riconoscere gli errori e tentare di porvi rimedio.

Nei panni di quel Sindaco io fui per un attimo certa che se avessi davvero agito, avrei avuto l’appoggio dei miei cittadini, togliermi dalle maglie del potere politico, tagliare i fili parentali e in un moto di buon orgoglio cercare una via d’uscita. Impresa assai difficoltosa e non priva di rischi, pura utopia o illusione infantile, preferisco tenermi i miei panni, più femminili, giovani, larghi e anonimi, costretta, credo, ad attendere con il nostro Sindaco il 2023, sperando che il tempo trascorra senza ulteriori danni: ma il peggior peccato non è fare qualcosa di cattivo, quanto piuttosto non fare nulla di buono quando si potrebbe. 

Riflessione a margine: “Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere consapevolezza di molte cose e potere su nessuna” (Erodoto).

** Libera interpretazione ispirata all’incipit de “La Metamorfosi” di Franz Kafka. 

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Daria Ubaldeschi

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