Giocando con le parole su un tovagliolo di carta blu

Com’è fatto un poeta? Ve lo siete mai chiesto? Uno pensa ai grandi autori come Ungaretti, Montale, Leopardi magari, ma un poeta dei nostri giorni? E quand’è che una persona che scrive poesie diventa “poeta”? In realtà, oggigiorno sembra che la definizione sia data più dai like e dalle condivisioni su un social, invece che da elementi più profondi legati alla sua intrinseca potenzialità di esprimere in versi emozioni e sentimenti umani, mantenendo al contempo un significato che sarà diverso per ognuno di noi.

Perciò trovo illuminante la definizione di poesia che ne dà Ungaretti: “la poesia è una combinazione di vocali e di consonanti, una combinazione però nella quale è entrata una luce. È dal grado di questa luce che si riconosce la verità della poesia. Quando la poesia è poesia, raggiunge l’irraggiungibile, mette a contatto le parvenze con la sola realtà, che è la realtà eterna”.
La poesia mette in contatto, ecco un elemento centrale, la poesia fatta di parole che entrano dentro il lettore e diventano sue, espressione completa della sua interiorità: “la poesia è di chi legge” sono le parole di Edoardo Firpo, un uomo di mezza età che incontro fuori da un bar un pomeriggio di inizio anno, intabarrato in un piumino caldo, il berretto in testa, lo sguardo vivace e un libro in mano. Così si presenta un poeta dei giorni nostri e il libro che ha in mano è la sua raccolta di poesie “Disamina dell’anima. L’amore universale nell’infinito confinato”; e già dal titolo si intuisce la caratteristica della sua scrittura, che tende a giocare con le parole, allitterandole.
Quando lo incontro per la prima volta di lui ho letto le notizie riportate su internet e il suo libro “Logiche congetturali nei ricorsi del cuore”, altra raccolta che mette in evidenza, anche qui già nel titolo, l’uso di ossimori che poi si ritrovano soprattutto nei suoi aforismi, brevi pensieri di due, tre righe che hanno il pregio di accennare senza dire, di suggerire lasciando al lettore lo spazio per ampliare quel concetto che si affaccia con prepotenza tra i versi.


Bene, questo è un poeta: beve il thè, come mi aspettavo, ma è anche un “Ironman”, un atleta di triathlon estremo, e questo me lo aspettavo molto meno. Forse, però, poesia è anche cercare di connettere tra loro gli opposti facendo convivere sulla carta le diverse anime di chi scrive. Per saperlo conviene partire dall’inizio, ossia: com’è diventato poeta Edoardo? O meglio, lo si diventa o ci si nasce e ci vuole poi solo l’occasione che permetta di esprimere e percepire dentro di sé questo talento?
Sarà banale, ma Edoardo mi racconta che stava attraversando un periodo critico, come in effetti spesso accade, sembra sempre che sia la sofferenza l’unica ad autorizzarci ad esprimere le parti creative di noi senza vergogna, fatto sta che lui che non aveva mai scritto né letto alcunché di poesia, si ritrova a buttare giù alcune frasi su un tovagliolo di carta blu. E il caso, che non è mai tale, vuole che un’amica un giorno lo legga, il tovagliolo è appoggiato su un tavolo, e gli domandi: «ma perché non partecipi a qualche concorso?» Edoardo lì per lì si diverte all’idea, che però poi in realtà non considera, i suoi erano solo pensieri sparsi tesi a lenire il dolore di una perdita che ha cambiato inevitabilmente la sua vita. Ma l’amica (fortunatamente) non si arrende e gli invia il link di un concorso.
In fondo, pensa tra sé Edoardo, che cosa costerà mai mandare i contenuti di quei tovagliolini che intanto sono aumentati? Come ogni favola che si rispetti, il lieto fine è assicurato, Edoardo vince il concorso e molti altri dopo quello, fino alla più recente assegnazione di una Laurea Honoris Causa per meriti etico letterari, conferita dall’Accademia Internazionale Francesco Petrarca di Capranica (VT). Mica sciocchezze!
Potrei stare qui a elencare tutti i premi vinti, che sono tanti, ma, se me lo concedete, per me è più importante riuscire a tradurre in parole la luce negli occhi di Edoardo mentre parla della sua poesia, anche se ammette di sentirsi a disagio quando lo definiscono un poeta, non ritiene di esserlo, a lui interessa che chi legge si senta toccato dalle sue parole: “la poesia non ha bisogno di me” ma è diventato un suo bisogno che non sapeva di avere, le parole gli arrivano, «io mi metto dietro le parole e lascio che facciano loro» e mentre lo dice arrossisce, come se non si sentisse degno: «forse io sono sempre stato così» e ha avuto bisogno di attraversare una crisi per fermarsi e lasciare spazio ad altre parti di sé senza sapere in cosa si sarebbe trasformato: in un poeta, a quanto pare. E parlare di poesia per lui è parlare di sé e del percorso di conoscenza e consapevolezza interiore che ha avviato e che ancora non è terminato, forse perché non ha realmente una fine, sono sensazioni che lo attraversano e che trovano espressione nelle sue parole, che siano brevi aforismi piuttosto che poesie scritte in forma di calligrammi, dove la configurazione che prende lo scritto riproduce il contenuto della poesia.
Edoardo scrive sotto l’ispirazione del momento, a mano, a sua volta sospinta da un bisogno non arginabile se non quando il pensiero si traduce nell’inchiostro della biro che percorre il foglio (ha anche scritto una sorta di ode alla biro, molto curiosa), «mi sento spinto da un sentimento di bene» e mentre lo dice tu che lo ascolti sai che è vero e pensi che la scrittura dovrebbe essere proprio questo, fare del bene all’essere umano, che lui definisce «la cosa più preziosa che esista». E sai perché gli credi? Perché Edoardo è un uomo che si stupisce. Di essere intervistato, di vincere concorsi, di essere apprezzato per le sue parole, ancora si stupisce, proprio come i bambini, perché lo stupore non può che derivare da quella parte di noi che ancora possiede il candore dell’infanzia. 

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Daria Ubaldeschi

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