Venticinque novembre

Per me, novese di nascita, il 25 novembre è sempre stato il giorno della fiera di Santa Caterina, un giorno di festa trascorso tra i banchetti e le giostre. Questo almeno fino al 1999, anno in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite ha stabilito che il 25 novembre diventasse anche la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Oggi è quel giorno, un venerdì del 2023, una giornata di sole tiepido che scalda le nostre coscienze con i silenzi e i rumori, con le scarpette e i segni rossi, con i gesti dell’aiuto, con i nomi delle donne vittime di violenza scanditi senza soluzione di continuità, con la condivisione di poesie struggenti e disperate i cui versi vengono ripetuti in modo automatico.

E poi? Oltre questa condivisione, oltre queste parole urlate, oltre le mille e una celebrazione che si susseguono, che cosa c’è? Domani avremo fatto la nostra parte, la nostra coscienza si sarà rasserenata, penseremo che no, a noi non potrebbe mai capitare, o che più di così non è possibile fare, che la colpa è sempre dell’altro, che sono gli uomini, i maschi, ad essere i veri colpevoli; che dipende dalla cultura, da un’educazione troppo libertina, dall’influenza dei social, dalle parole delle canzoni trap, da un disagio mentale a sua volta derivante da un trauma.

O forse le vere colpevoli sono le donne, perché si vestono troppo succinte, perché vanno in giro da sole, loro provocano, la loro libertà è percepita come ribellione; insomma, ogni tanto se la vanno proprio a cercare. Quante volte avete ascoltato queste parole? E siamo ancora qui a fare la conta delle vittime di omicidio perpetrato da un essere umano su un altro essere umano, da un uomo su una donna: ne restiamo sconvolti, atterriti, ci scandalizziamo, proviamo tristezza e pena, almeno per un giorno o due. E poi basta, si passa ad una nuova tragedia che richiede il nostro cordoglio immediato.

A meno che quell’evento che si celebra non ci tocchi personalmente, che non siamo coinvolti direttamente in un abuso, piuttosto che in una malattia o in un reato, a seconda dei casi. Ma nessuno si salva da solo ed è quanto mai vero quando si parla di donne che subiscono violenza e vengono punite (perché nella mente dell’omicida di questo si tratta) con la morte, quell’evento che nessuno di noi ha diritto di provocare su un altro essere vivente, uomo o donna che sia. Ma forse il problema sta proprio qui, nella differenza tra donna e uomo, uguali in quanto esseri umani ma diversi per genetica, evoluzione, caratteristiche, una diversità che li rende complementari e che va salvaguardata e rispettata, sapendoli uno necessario all’altra.

Non voglio stare qui a fare una lettura delle motivazioni sottostanti un atto condannabile a prescindere, lo stanno già facendo tutti, titolati o meno; e tanto meno voglio vestire la parte della psicologa che spiega i meccanismi della violenza sulle donne, cercando di interpretare l’universo maschile e la cultura dominante. Ma una cosa vorrei dirla ed è che abbiamo perso i nostri sensi. Abbiamo perso la vista, camminiamo costantemente con lo sguardo sul cellulare a picchiettare sullo schermo e non sappiamo più guardare chi ci passa accanto. Figuriamoci vedere il segnale di aiuto fatto da una donna in pericolo. E abbiamo perso l’udito, perennemente con le cuffie nelle orecchie ad ascoltare e a parlare con chissà chi, di certo non in grado di ascoltare davvero, con le orecchie del cuore, quell’altro da noi che forse ci sta dando dei segnali di bisogno.
Vedere e ascoltare sono quegli atti minimi che ci mettono in relazione con l’altro da noi, che fanno sì che esista una reciprocità di interesse e di cura. Vedere e ascoltare: non lo facciamo più, siamo concentrati su noi stessi, non vogliamo essere coinvolti, quando in realtà quello che facciamo è lavarcene le mani. Tranne oggi, naturalmente. 

(nella foto di apertura un momento dello spettacolo “Belve” sul tema della violenza sulle donne andato in scena ieri sera al Teatro Giacometti di Novi Ligure)

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Daria Ubaldeschi

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