Il testo integrale dell’intervento di Mario Lovelli per la celebrazione della Festa della Liberazione

Anche quest’anno pubblichiamo integralmente il testo dell’orazione ufficiale che Mario Lovelli ha tenuto ieri, 25 aprile 2024, presso piazza Pascoli a Novi Ligure in occasione della commemorazione della Festa della Liberazione.

Un momento dell’orazione di Mario Lovelli

Ci sono due eventi fra i tanti da cui vorrei partire nella mia riflessione di oggi 25 aprile 2024. L’uno è accaduto appunto Il 25 aprile di 79 anni fa, alle ore 19 e 30 a Genova a Villa Migone quando il generale tedesco Gunther Meinhold, comandante in capo delle truppe tedesche in Liguria ha firmato la resa e la consegna delle armi alle forze armate del Corpo Volontari della Libertà di fronte ad un operaio, Remo Scappini Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria.

In piazza De Ferrari nel centro di Genova liberata avrebbe sfilato anche la IV Divisione Garibaldi Pinan Cichero (cui è intitolata la via di un importante quartiere della nostra città) guidata dal comandante Aurelio Ferrando Scrivia il più prestigioso comandante partigiano della nostra zona. Quel documento ci ricorda un fatto importante. Ossia il ruolo che la Resistenza ha avuto per determinare l’esito della Guerra di Liberazione contro il nazifascismo, riconosciuto del resto dal generale Clark del Comando alleato in Italia con un radio messaggio del 23 aprile trasmesso allo stesso Comando della Divisione Garibaldi Pinan Cichero.

L’altro evento era accaduto a Cuneo quasi due anni prima, il 26 luglio del 1943 (il giorno dopo il “licenziamento” del Duce da parte del Re) mentre le effigi di Mussolini cadevano a terra magari ad opera della stessa folla plaudente fino al giorno prima. In un famoso discorso pronunciato nella piazza che avrebbe preso il suo nome, Duccio Galimberti avvocato, aveva invitato i suoi concittadini a guardarsi dall’illusione di una liberazione “dall’alto”. “La guerra dovrà quindi continuare, ma non sarà quella di cui parla il maresciallo Badoglio: sarà guerra di Liberazione contro i tedeschi e i fascisti […]Sarà una pena atroce, combattere contro degli italiani, ma inevitabile. Sarà una guerra popolare e nazionale; dunque, combattuta volontariamente dal popolo preparato e guidato da chi è consapevole della gravità del momento storico.[…] Soltanto essa può garantire all’Italia quella vera pace a cui aneliamo, contribuendo alla costruzione di un nuovo ordine europeo democratico e confederale. Non potrà essere una parte politica sola a costruire o ricostruire quei valori. Proprio qui nel mio studio, si sono or ora incontrati esponenti dei Partiti liberale, socialista e comunista, della Democrazia Cristiana e del Partito d’Azione. Assieme abbiamo costituito un Comitato provinciale provvisorio che lancerà un appello alla popolazione. Chiediamo giustizia, non vendetta”.
Ecco in queste parole c’è tutto. C’è lo spirito resistenziale e c’è lo spirito costituente. E Duccio Galimberti promotore delle Brigate di Giustizia e Libertà,avrebbe pagato con la vita la sua scelta coerente finendo assassinato dalle Brigate nere a dicembre del 1944. Fu dunque fondamentale per dare vita a quel movimento che oggi chiamiamo semplicemente Resistenza quella partecipazione trasversale di popolo, di ceti sociali, e di diverse visioni politiche e culturali che animò la scelta di tanti che dopo l’otto settembre 1943 aderirono alle formazioni partigiane, compresi reparti del Regio Esercito in Italia e all’estero, sotto la guida politica del CLN e di quei militanti antifascisti che nel corso del ventennio pagarono col carcere, col confino e con l’esilio la loro opposizione al regime (e molti di loro persero la vita come Giacomo Matteotti che ricordiamo quest’anno nel centesimo anniversario della morte).

Non è quindi necessario usare l’enfasi retorica delle celebrazioni ufficiali per festeggiare oggi il 25 aprile. Anche perché sappiamo che ancora una volta il presidente della Repubblica oggi a Civitella in Val di Chiana teatro di una terribile strage nazifascista, saprà usare le parole giuste di chi rappresenta l’unità nazionale ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione Semplicemente questa è la data fondativa della Repubblica, il Natale Civile per dirla con Maurizio Maggiani, e per noi piemontesi di frontiera (ben rappresentati nella mappa geografica dei 600 giorni della lotta partigiana a cavallo dell’Appennino) è un motivo di orgoglio poter constatare che tanti nostri giovani non sono rimasti a guardare e che proprio da questi territori sono arrivati quei comportamenti e quei messaggi che possiamo definire universali e che ancora oggi conservano nei documenti che ho citato la lucidità della lettura storica di quel momento e la grandezza del progetto politico per il futuro.

La nostra passeggiata antifascista di questa mattina si è svolta fra lapidi monumenti e vie che ci ricordano i caduti per la Liberazione dal nazifascismo (senza dimenticare che la stele che ricorda i Martiri della Benedicta è stata di recente opportunamente ricollocata presso la scuola che porta il loro nome e sarà quotidianamente visto da studenti e famiglie) ma anche il Risorgimento, l’Indipendenza nazionale, l’Unità d’Italia , le vittime militari e civili delle guerre e ancora i caduti più recenti per mano delle mafie come Falcone e Borsellino e non dimenticando chi anche in questo secolo è morto in missioni militari di pace come il nostro concittadino maresciallo Daniele Paladini cui è stata dedicata la vecchia sala del Consiglio comunale. Allora questa passeggiata che si conclude qui davanti al monumento eretto a ricordo dei caduti della Resistenza e della Lotta di liberazione riannoda i fili di una storia e di un racconto che purtroppo oggi avviene in assenza dei testimoni che per tanti anni ci hanno accompagnato su questo palco, negli incontri con le scolaresche, o nell’organizzazione di mostre e discussioni pubbliche anche aspre soprattutto da quando la narrazione revisionistica della Resistenza si è proposta in modo lacerante. Perciò il nostro compito è riempire il “vuoto dei testimoni“ non facendo mancare la memoria ma soprattutto trasmettendone ancora i valori e i contenuti con un impegno quotidiano, non solo legato alle date del calendario civile, lavoro cui il nostro Istituto Storico della Resistenza dedica da decenni un impegno incessante con pubblicazioni rilevanti e una documentazione enorme messa a disposizione di tutti.

Davanti a questo monumento penso ad esempio ad Armando Pagella il sindaco partigiano che lo ha inaugurato e che insieme ai suoi predecessori, a cominciare dall’avvocato Biagio Martelli sindaco della Liberazione dal 27 aprile 1945 nominato dal CLN novese presieduto dal dottor Vincenzo Vittorio Trucco (quello della clinica partigiana, per intenderci) a cui seguirono, dopo le prime elezioni comunali libere dopo la dittatura, Eugenio Calcagno e Carlo Acquistapace, tutti perseguitati dal fascismo e che seppero traghettare una città colpita dalle distruzioni della guerra verso una nuova fase di sviluppo economico e sociale nell’Italia repubblicana e democratica. Non parlo di appartenenze politiche, li conoscete tutti. Ma parlo di uomini, di persone, con loro tante donne tornate protagoniste che,nel solco dell’antifascismo, seppero far rinascere e riunificare una città.

Del resto il bel libro di Lorenzo Robbiano, ripresentato ancora l’altro ieri in biblioteca, ce ne ha ricordato le vicende e non devo dilungarmi oltre. E come non pensare a Franco Barella “Lupo” che al Corpo Volontari della Libertà e alla sua associazione l’ANPI, è rimasto tenacemente attaccato fino all’ultimo e su questo palco è salito e ha parlato finché ha potuto, insieme ad Alessandro Ravazzano il “Cucciolo” cioè al partigiano più giovane che, come leggiamo in rete “scampò all’eccidio della Benedicta e alla tragedia del Grande Torino” per dire della sua storia sportiva oltre che resistenziale.

Franco Barella ha scritto da solo e anche a quattro mani con i suoi compagni del periodo resistenziale dei volumi che sono ancora essenziali per leggere la storia della Resistenza a Novi e nelle nostre valli e mi piace ricordare come uno di questi “La bottega del ciabattino” scritto insieme a Franco Inverardi “Acuto-Franchein” abbia quasi la trama di una sceneggiatura teatrale o cinematografica che aspetta solo di essere rappresentata. E allora è ancora utile ricordare da dove siamo partiti questa mattina. Anche perchè sul piano personale sono legato a figure che ho conosciuto direttamente e che mi hanno aiutato a riflettere e a capire. Penso a Marcello Venturi e al suo “Bandiera bianca a Cefalonia” un volume a cui Sandro Pertini attribuì nel 1972 il merito di aver scritto “il primo atto del dramma della Resistenza armata e di inizio del riscatto del nostro Paese” una vicenda che solo molto molti anni dopo, nel 2001, con Carlo Azeglio Ciampi avrebbe avuto proprio nell’isola di Cefalonia il riconoscimento ufficiale della Repubblica soprattutto perché quei soldati mandati a combattere una guerra di aggressione contro la Grecia seppero, dopo l’otto settembre, in un frangente drammatico e abbandonati dal loro stesso governo, fare una scelta che ha portato per la maggior parte di loro al sacrificio della vita, per molti altri sparsi fra le isole dell’Egeo o in altri fronti di guerra all’internamento nei campi di detenzione tedeschi per il rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, per alcuni reparti dell’Esercito alla partecipazione diretta alla lotta partigiana nei Balcani o ancora alla costituzione del Corpo Italiano di Liberazione che ha affiancato gli alleati nella loro risalita verso il Nord Italia. E con lui giornalista e scrittore venuto ad abitare nel nostro Monferrato ovadese, penso al testimone degli eventi Giuseppe Ansaldi nostro concittadino sopravvissuto a quell’eccidio e poi transitato per svariati campi di prigionia e lager in Est Europa prima di tornare a fine guerra nel suo paese natale a Giarratana in Provincia di Siracusa da dove sarebbe emigrato al Nord per fermarsi a Novi Ligure e costruirsi una nuova vita. La sua tenacia lo ha portato infine a realizzare nel 2002 praticamente con le proprie mani il monumento alla Divisione Acqui cui abbiamo reso omaggio questa mattina e in quella circostanza l’intervento commemorativo fu scritto (anche se non letto da lui per un improvviso ricovero ospedaliero) dal professor Renato Gatti maggiore di fanteria a sua volta reduce dalla campagna in Albania dove sarebbe diventato comandante nelle formazioni partigiane della Divisione Garibaldi e che in città è stato dirigente scolastico e consigliere comunale.Insomma figure della storia novese che hanno lasciato una traccia che non va dispersa e che oggi ci deve essere di insegnamento. Come opportunamente ha già fatto l’Amministrazione comunale lo scorso anno in occasione dell’80*anniversario dell’eccidio di Cefalonia coinvolgendo le scuole della città.
Del resto la memorialistica non si esaurisce con la scomparsa dei testimoni e ancora in questi giorni il diario di Dante Trespioli scritto durante la disastrosa campagna di Russia pubblicato dal figlio Guido o il Monello del distaccamento “Novi” ricordato da Salvatore Sacco o le Vite di Ada di Graziella Gaballo ed altri protagonisti ricordati in questi giorni in altri comuni ci rammentano che c’è sempre da studiare e ricercare, soprattutto favorendo la conoscenza dei fatti storici e il dibattito pubblico sugli stessi. Anche perché vicende come quelle dell’ultimo caduto di Novi Balustra Mario Pietro detto MAS di anni 19 ucciso dai nazisti in fuga proprio il giorno della Liberazione di Novi il 27 aprile del 1945 e del primo caduto, Massimo Misquezzo detto Massimino di 14 anni ucciso nel Borgo delle Lavandaie nel dicembre del 1943 ci ripropongono la realtà di una strage di giovani, anzi di ragazzi, di bambini. Una tragedia che ha decimato una generazione e che ha avuto il suo momento simbolico e tragico nella strage della Benedicta nella Pasqua del 1944.

È insomma la storia quella che Elsa Morante, nel suo romanzo epico pubblicato nel 1974, ci ha proposto col sottotitolo “uno scandalo che dura da diecimila anni”… e che purtroppo si ripete senza sosta quotidianamente in Medio Oriente e in Ucraina, ma non solo. Quanti Massimino e quanti MAS vediamo morire nelle guerre dei nostri giorni?

Il 25 aprile giorno di festa per gli italiani non può che essere dunque anche giorno di riflessione sui compiti che spettano alle forze democratiche per far tacere le armi e far progredire la pace. Perché se nell’immediato dopoguerra la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei diritti umani, (senza dimenticare la risoluzione ONU 181 del 1947 che avrebbe dovuto definire dopo la tragedia della Shoah la partizione della Palestina in due Stati in modo pacifico e consensuale); e ancora i Trattati di Roma che nel 1957 diedero il via all’organizzazione della grande famiglia europea (ispirata da quel Manifesto di Ventotene elaborato al confino degli antifascisti italiani nel 1941) furono frutto di una fase nuova nella storia delle relazioni fra i popoli, oggi certamente quel progetto universale non può dirsi né compiuto, né realizzato. Ed è forse il caso di ricordare, consentitemi questa digressione, che nel tricentenario della nascita del grande filosofo tedesco Immanuel Kant famoso fra gli altri per il suo saggio “Per la pace perpetua” che è stato la base di tante elaborazioni successive sul tema, della sua stessa città, la Konigsberg nella Prussia orientale dei suoi tempi, diventata russa nel 1946 col nome di Kaliningrad si parla oggi per ragioni geostrategiche sul fronte orientale. E non certo per grandi propositi pacifici.

E allora è anche possibile che il 25 aprile, di fronte a temi di tale gravità, possa proporsi per tanti italiani e per tanti politici come una data divisiva? Purtroppo questa è la realtà e basta scorrere le rassegna stampa di questi giorni dove in molti giornali c’è la rincorsa alla contronarrazione o alla rimozione, mentre tentativi di censura magari sulla televisione pubblica si manifestano, peraltro con esiti del tutto opposti e controproducenti per i promotori. Ed è possibile perché le ragioni stanno nell’autobiografia della nazione di cui parlò Piero Gobetti con molta preveggenza, senza poterne vedere gli esiti finali perché morto giovanissimo in esilio dopo le aggressioni e i pestaggi subiti dallo squadrismo fascista. Ed è naturalmente possibile perché le ragioni si ritrovano anche nella storia delle famiglie che hanno vissuto quella guerra civile originata dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana nell’estremo tentativo di legare le sorti dell’Italia a quelle della Germania nazista e che hanno tramandato una memoria che a questa storia si riconnette e non la rinnega o comunque non vuole rimuoverla.
Parlo di famiglie nel senso di comunità familiari ma anche di famiglie politiche naturalmente.

Eppure il compito prioritario oggi della politica e delle istituzioni dovrebbe essere proprio quello di riconnettere tutti gli italiani al fatto che questa festa nazionale (ironia della sorte istituita la prima volta con decreto luogotenenziale di Umberto II di Savoia il 22 aprile del 1946 poco prima del referendum costituzionale del 2 giugno che lo avrebbe portato all’esilio) rappresenta lo spartiacque fra un prima e un dopo proprio perchè, con la Liberazione dal nazifascismo e grazie ad essa, quella data avvia il processo democratico che porta a costruire un’Italia nuova e libera attraverso decisioni prese dal popolo italiano in piena autonomia e non per imposizione di una qualche potenza occupante.

Una data fondativa appunto. Io penso che se sapessimo collettivamente riflettere con attenzione senza il velo del pregiudizio su quello che è successo in Italia dopo un ventennio di dittatura e oltre 400mila morti nel conflitto mondiale, se sapessimo riflettere su quanto successo fra il 1943-45 e poi tra il 1946-48 dovremmo solo parlare di quel “miracolo della ragione” di cui scrisse Piero Calamandrei che ha consentito a un Paese sconfitto e ridotto in macerie quale noi eravamo, dilaniato da una guerra civile sanguinosa,di scegliere in autonomia con un referendum il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica e intanto di sedersi alla conferenza della pace di Parigi nell’agosto del 1946 con Alcide de Gasperi presidente del consiglio democristiano di un governo di unità nazionale che poté affermare « […] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire

Insomma i nostri genitori, i nostri progenitori hanno scelto con referendum la Repubblica ed hanno eletto l’assemblea Costituente con la partecipazione al voto per la prima volta delle donne. E poi c’è stata la capacità e la lungimiranza dei costituenti anche dentro alla crisi che ha colpito i governi di unità nazionale nel corso del 1947 di portare a compimento i lavori dell’assemblea e di approvare quella Costituzione democratica e antifascista che dal primo gennaio 1948 è alla base della nostra convivenza democratica e che dura da allora, determinando una continuità indissolubile fra Resistenza, 25 aprile e testo costituzionale.

Ecco bisogna che la consapevolezza di questo percorso diventi patrimonio di tutti, perché questo è il patrimonio fondativo di una Nazione e non deve essere motivo di divisione. Della storia successiva e delle dure contrapposizioni politiche vissute dal nostro Paese, che continuano ancora oggi, si può e si dovrà parlare sempre. Quello che non è consentito a chi in base alla Costituzione ottiene temporaneamente il mandato elettorale per governare il Paese, chiunque esso sia, è di utilizzarlo per non riconoscerne i fondamenti se non per metterli continuamente in discussione.
O semplicemente ignorandoli. Per esempio con interventi legislativi che minino la libertà delle persone, soprattutto in materia di cittadinanza e di immigrazione, di diritti civili e sociali, soprattutto per le donne, e comunque con intenti discriminatori per motivi di orientamento etnico,religioso, sessuale e di identità di genere. O ancora con progetti di riforma costituzionale, ahimè non nuovi, che mettono in discussione l’equilibrio dei poteri dello Stato e il principio di rappresentanza su cui l’art.1 della Costituzione fonda la sovranità popolare.

Consentitemi di citare ancora una volta Piero Calamandrei padre costituente che fino alla sua morte a metà degli anni ‘50 ha continuato a lanciare l’allarme per la mancata attuazione del dettato costituzionale e per il permanere di molti aspetti della precedente legislazione fascista. Quando con la nascita finalmente della Corte Costituzionale nel 1956 fu emessa la prima sentenza che dichiarava incostituzionale il famigerato TU di Pubblica Sicurezza che all’art.113 vietava di far circolare senza autorizzazione scritti o disegni in palese violazione della libertà di manifestazione del pensiero sancita dalla nuova Costituzione, egli scrisse “Sulle tombe dei morti della Resistenza questa sentenza, nella sua semplice austerità, è più significativa e più commovente di una corona di fiori” (editoriale su La Stampa del 16 giugno 1956). Non è la citazione più famosa di Calamandrei anche se ne richiama un’altra ben nota. Ma è quella che ci ricorda che la Costituzione è la strada maestra e che ha tratto origine dalla Resistenza.
Viva allora il 25 aprile. Viva la Repubblica. Viva la Costituzione

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Mario Lovelli

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