Divulgazione: La cultura non deve essere elitaria ma democratica

Dopo la trasmissione su Rai 2 del docu-film Pompei ultima scoperta del 27 dicembre scorso, per l’ennesima volta, alcuni professori universitari (e non) hanno deciso di pronunciarsi negativamente riguardo a questo tipo di programmi, un po’ perché la realtà del sito archeologico in questione è effettivamente diversa da quella che si può percepire dal programma televisivo, sembrando quasi senza alcun tipo di problema in termini di tutela, e un po’ perché pare che si tenda sempre a scegliere luoghi famosi, cadendo, quindi, nella banalità. Per quanto riguarda la difficile situazione che affligge Pompei e tante altre aree archeologiche d’Italia non si può certo negare, ma per questi docenti, alla fine, parrebbe essere anche il minore dei problemi.

Si passa, infatti, a nomignoli e vezzeggiativi, come “Albertone”, per denigrare il lavoro di diversi professionisti che da anni appaiono in televisione con programmi divulgativi riguardanti la storia, l’arte e l’archeologia. L’accusa è quella di semplificare e banalizzare, invece che inscenare una lezione universitaria in piena regola. Non è nemmeno chiaro cosa si voglia realmente, passando da commenti ironici a affermazioni più dure, che lasciano quasi trapelare una qualche sorta di rancore verso questi programmi/documentari, oltre che per chi li conduce. Leggo, poi, che servirebbe una “divulgazione più seria”, ma cosa si intende con “più seria”?

Leggendo ancora le varie discussioni comprendo che, effettivamente, in televisione si vorrebbe vedere qualcosa di analogo a conferenze, convegni e lezioni accademiche, volte a soddisfare quella che potremmo definire l’élite della cultura. Sì, perché sognare un servizio pubblico che si rivolga soltanto a una determinata fascia della popolazione, anche piuttosto ristretta, pone queste persone su una sorta di piedistallo, dal quale si sentono addirittura in diritto di privare la maggioranza della popolazione di una sana informazione, seppur magari un po’ più semplificata rispetto a quella universitaria. Ci si scaglia tutti i giorni contro la televisione-spazzatura, finendo, però, per diventarne complici in questo modo: non tutti hanno condotto studi accademici per poter affrontare tecnicismi e approfondimenti specifici e il risultato sarebbe quello di escludere un’enorme fetta di persone. La divulgazione, infatti, serve proprio ad avvicinare e ad appassionare chiunque, senza selezionare il proprio pubblico in base all’istruzione. Per esempio, da quando sono una bambina guardo Geo&Geo, imparando molte cose. Sicuramente è un programma impostato per essere compreso da chiunque e, infatti, io, che non ho condotto alcuno studio specifico sul mondo animale o vegetale, non ho difficoltà a comprendere gli argomenti trattati. Se, invece, si rivolgessero al proprio pubblico attraverso una specificità più approfondita, sicuramente, io, come tanti altri, mi troverei in difficoltà, finendo per cambiare canale.

Andando, quindi, a modificare il metodo o, addirittura, l’idea stessa di divulgazione, si rischierebbe di allontanare tantissime persone e di mandare in onda programmi fini a sé stessi. Perché dei professori universitari, che, quindi, hanno tutti i mezzi per poter implementare le proprie conoscenze attraverso altri canali, desiderano così tanto trasmissioni diverse rispetto, per esempio, a Ulisse o a Sapiens?

Ho notato, inoltre, che per programmi condotti da Roberto Giacobbo (o comunque affini) nessuno esprime mai alcun giudizio, né positivo né negativo. Eppure il più delle volte si assiste a teorie complottiste, come per esempio l’intervento alieno per la costruzione delle piramidi, che va da sé essere follia. Ma nonostante questo difficilmente qualcuno proferisce parola a riguardo. Insomma, si finisce sempre per criticare aspramente chi in fondo non sembra svolgere così male il proprio lavoro, lasciando invece indisturbati tutti coloro che per conferire un po’ di fascino alla propria trasmissione e, probabilmente, per sopperire a delle carenze si appellano a teorie assolutamente fantasiose e prive di fondamento, andando a inquinare una buona informazione. E, ancora una volta, mi chiedo il perché.

La cultura non dovrebbe essere elitaria, bensì democratica: solo così si potrà assistere a un vero e proprio sviluppo volto alla creazione di una libertà di pensiero. Alcuni, però, sembrano ancora troppo ancorati a quell’idea secondo la quale al di fuori dei linguaggi accademici ci si muova su un terreno effimero, se non addirittura dannoso. Insomma, la cultura dovrebbe essere solo per quei pochi che decidono di elevarsi al di sopra degli altri, con la pretesa di decidere il modus operandi dei programmi televisivi (e non solo), che non dovrebbero più rivolgersi a un’ampia fascia di persone, ma solo a chi possiede le basi per destreggiarsi nell’ambito accademico. Eppure stiamo parlando di professori, di coloro che dovrebbero possedere più di chiunque altro lo spirito di insegnamento, non concentrandolo solo ai livelli più alti, ma anche e soprattutto su quelli intermedi e più bassi.

Dai tanti discorsi letti ho anche notato quelli del “a lui pubblicano il libro, a me no”. Un libro di Alberto Angela, per esempio, lo legge chiunque più o meno, un saggio accademico no. È qui la grande differenza e il motivo per cui il primo autore ha un grande successo tra milioni di persone, con conseguenti pubblicazioni, mentre molti professori, seppur preparati, non vedono accadere lo stesso per i loro scritti. È fondamentale che i saggi accademici esistano, sia chiaro, ma non rappresentando l’unica possibilità e nemmeno l’unica meritevole di esistere. Un libro di Angela, infatti, non è qualitativamente basso, anzi, è capace di parlare a tutti, di insegnare, di appassionare e, soprattutto, di rendere semplici anche i concetti più complessi. Ed è esattamente questo che dovremmo volere: una cultura per tutti, senza distinzioni. Mi è difficile pensare che qualcuno possa davvero credere che il lavoro di professionisti come Alberto Angela, Mario Tozzi, Alessandro Barbero e molti altri sia scadente, mentre, invece, penso che tutto questo livore sia frutto di una forte invidia, nonché frustrazione da parte dei più, cosa che spiegherebbe il non interesse nei confronti di Roberto Giacobbo: perché probabilmente nei panni di un Alberto Angela ci si vorrebbero trovare, in quelli di un Roberto Giacobbo no.

Professionisti come Angela, Barbero e Tozzi non sono certo impreparati o poco meritevoli, anzi, si sono guadagnati il ruolo che ricoprono in televisione o in determinate pubblicazioni ed è davvero errato cercare di far intendere altro. Per questo l’unica vera risposta che riesco a dare a questi comportamenti è quella di una qualche forma di elitarismo da parte di molti docenti universitari, nonché una gelosia nei confronti di chi è riuscito a far sentire la propria voce, che sfocia poi in rivalità.

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Fiammetta Merlo

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